Protocollo condiviso e responsabilità datoriale
Torniamo ad occuparci del protocollo condiviso in relazione alla eventuale responsabilità datoriale. L’emergenza Covid-19 ha posto in questi mesi diverse questioni interpretative. Questo anche in materia di applicazione della disciplina per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Ancora a dicembre 2020, arrivati ormai a gennaio 2021, non si sono ancora esaurite le discussioni sul tema in relazione ai luoghi di lavoro. Nonostante le varie circolari del Ministero della Salute. Nonché le indicazioni del protocollo con le parti sociali. Ancora, vi sono ancora discussioni in merito alla sorveglianza sanitaria, dell’ ingresso in azienda di terze parti. O ancora di come deve essere gestito l’ingresso di fornitori esterni o lo smart working.
Si è discusso molto sul tema della responsabilità datoriale. Nonché del ruolo del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro.
Torniamo a parlarne con riferimento alla conversione in legge del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23. Questo ha introdotto una sorta di “scudo” per la responsabilità dei datori di lavoro pubblici e privati.
Datori di lavoro che adempiono all’obbligo di cui all’art. 2087 del Codice civile attraverso applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli condivisi.
Ad affrontare questo tema, con particolare riferimento al ruolo ricoperto dai protocolli , è un contributo pubblicato su “Diritto della sicurezza sul lavoro”. Si tratta della rivista dell’Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell’Università degli Studi di Urbino.
La normativa sulla responsabilità datoriale per il rischio di contagio
Il contributo prima di interrogarsi sul valore da riconoscere al protocollo condiviso, prende le mosse dall’esame dalle novità in materia di responsabilità del datore di lavoro. Come introdotte dalla legge 5 giugno 2020, n. 40 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (cosiddetto d.l. Liquidità).
Questo indica misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese. Nonché di poteri speciali nei settori strategici, oltreché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali.
La legge ha introdotto una sorta di “scudo”. Come definito da molti, che è stato emanato nonostante i diversi interventi dell’Inail volti a ‘rassicurare’ le imprese sul tema in vista della riapertura generale post lockdown.
L’Inail si è spinta anche ad affermare (Comunicato Inail, del 15 maggio 2020) che la responsabilità datoriale sia ipotizzabile ‘solo in caso di violazione della legge. Ovvero di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche’. Le quali nel caso di specie ‘non possono che rinvenirsi nei protocolli e nelle linee guida governative e regionali’ di cui alla normativa emergenziale.
Il protocollo condiviso con le rappresentanze sindacali
Tuttavia malgrado gli atti amministrativi il legislatore ha voluto comunque intervenire. Giacché, come ci ricorda l’univoca giurisprudenza sul punto. Le circolari, le note e i pareri delle pubbliche amministrazioni, ancorché autorevoli e ben argomentate, non sono fonti del diritto e quindi non vincolano né il giudice né il cittadino.
In questo senso, la predisposizione di uno ‘scudo’ per le imprese si è resa necessaria in ragione della natura dell’art. 2087 c.c. quale norma ‘elastica’ e a schema aperto.
Dunque, per il concreto rischio che anche il rispetto pedissequo dei protocolli condivisi (nazionali o regionali). Non avrebbe, comunque, posto al riparo da addebiti di responsabilità il datore di lavoro al di là delle rassicurazioni dell’autorevole Istituto.
Senza questo “scudo” l’interpretazione dell’art. 2087 cc sarebbe stata rimessa alla sensibilità dei singoli Giudici. Ciò con la conseguenza che, alcuni di essi, avrebbero potuto ritenere sufficiente l’adozione dei protocolli. M altri, invece, avrebbero potuto richiedere l’adozione di ulteriori misure ‘innominate’ rispetto a quelle ivi indicate in ragione proprio della vis espansiva della norma codicistica di riferimento.
Il riferimento normativo al protocollo condiviso
Dunque l’art. 29-bis, aggiunto in sede di conversione del dl Liquidità, indica una cosa chiara. Cioè che ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 cc mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso.
Nei casi in cui non trovino applicazione le suddette misure, occorrerà far riferimento a quanto statuito nei “protocolli o accordi di settore”. Stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Dunque, come ricordato nei nostri articoli, la norma statuisce che il rispetto delle misure elencate nel protocollo condiviso, ad oggi, rappresenta la concretizzazione. Nonché la specificazione del generale obbligo di diligenza e della massima sicurezza tecnologicamente possibile.
Se l’adozione di un protocollo condiviso sindacato – azienda diviene, dunque, fondamentale nella definizione del perimetro della responsabilità datoriale. L’autore ricorda che il modello costruito nell’articolo oggetto di trattazione non è del tutto sconosciuto agli operatori del diritto. Segno che regole eccezionali come queste possono poi rifugiarsi nei vecchi e consolidati schemi.
Il riferimento è ovviamente al modello di organizzazione e gestione (c.d. ‘MOG’), ex art. 30 del d.lgs. n. 81/2008.
Il quale se ‘efficacemente attuato’, costituisce efficacia ‘esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.
Nonché delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231’.
L’adozione di un modello organizzativo aziendale di sicurezza anti-contagio
Riguardo all’adozione del protocollo condiviso e dell’appena citato modello organizzativo aziendale l’autore sottolinea che non c’è un rischio di “policentrismo normativo”. “Come noto, i modelli organizzativi aziendali si aggiungono e non sostituiscono i protocolli condivisi nazionali o le linee guide regionali”.
D’altronde il tema della salute e sicurezza dei lavoratori è un qualcosa che è connaturale al campo delle relazioni industriali. Giacché queste non esauriscono il campo d’azione della propria ricerca scientifica soltanto nei temi della contrattazione collettiva e dei diritti sindacali.
Si indica poi che la tenuta del cosiddetto “scudo”, sopra descritto. Inevitabilmente viene meno innanzi ad un recepimento solo formale delle prescrizioni prevenzionistiche.
Si è di fronte ad una sorta di ‘welfarizzazione del rischio’ da Covid-19. Giacché, come afferma la risalente giurisprudenza, l’art. 2087 c.c. impone all’imprenditore una serie di misure. Queste si risolvono in una prestazione, che egli stesso è tenuto ad adempiere e che il lavoratore ha diritto di pretendere.
Infine il contributo ricorda che, per il rischio da contagio da Covid-19, l’Inail classifica il rischio di contagio. In relazione alle diverse tipologie di attività. In quattro classi: basso, medio-basso, medio-alto ed alto.
Quest’ultimo atto diventa fondamentale anche per l’adozione di un efficace modello aziendale. Giacché le misure che dovranno essere adottate dai soggetti responsabili terranno necessariamente conto del rischio insito alla lavorazione specifica.
L’autore conclude che a fronte di una normativa che sicuramente aiuta il datore sotto il profilo della responsabilità. Sarebbe auspicabile, comunque, che gli stessi si dotino di un adeguato sistema di compliance aziendale. Ciò attraverso il coinvolgimento e la valorizzazione di tutte le figure interne ed esterne che possano fornire un apporto utile al sistema di prevenzione.