datori di lavoro

Datori di lavoro e gestione del rischio Covid-19

Vediamo in dettaglio oggi un contributo che tratta della responsabilità dei datori di lavoro chiamati a fronteggiare l’emergenza Covid-19.

La pandemia relativa alla diffusione del virus ha infatti avuto effetti dirompenti su ogni ambito della vita sociale. Incluso il lavoro nelle organizzazioni pubbliche e private. Quali sono i profili di responsabilità secondo gli ultimi orientamenti? Cosa devono fare i datori di lavoro? Vediamolo insieme.

A ricordare in questi termini l’impatto su “ogni ambito della vita sociale” dell’emergenza Covid-19. Nonché a permetterci di fare interessanti riflessioni su alcuni temi delicati in materia di salute e sicurezza è un contributo del Prof. Vincenzo Mongillo pubblicato sul numero 2/2020 della rivista trimestrale “Diritto penale contemporaneo”.

Il contributo cerca di risolvere i dubbi e i contrasti di vedute insorti nei mesi scorsi. Relativi al rapporto tra le previsioni di contrasto del Covid-19 negli ambienti lavorativi e il sistema di tutela della salute e sicurezza del lavoro incardinato nel D.lgs. n. 81/2008.

Il rischio COVID-19 e il necessario apporto dei datori di lavoro

Il datore di lavoro che è il titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore. Nonché la persona in possesso dei poteri decisionali e di spesa è chiamato a calare nella propria realtà le misure di sicurezza che devono essere presenti durante il lavoro subordinato.

Se è vero che il datore di lavoro è individuato come il “capo” dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali. Comunque non deve fare tutto da solo. Sarà aiutato dal medico competente e dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

In questo modo potrà portare avanti le visite mediche sul lavoro in caso vi fosse la necessità. Nonché i corsi di formazione in materia di sicurezza.

Tutto questo però come si concilia con il Covid-19? Con il Covid-19 anche rispetto ai luoghi di lavoro è sorta la necessità di approntare un vero e proprio arsenale di misure protettive contro la (ulteriore) propagazione del contagio. Ciò al fine di salvaguardare l’incolumità e la salute dei lavoratori. Nonché, di riflesso, dell’intera collettività.

Il rischio generico, il rischio aggravato e il rischio contagio

Innanzitutto non convince del tutto la teoria secondo cui il rischio di infezione da SARS-CoV-2 continui a rappresentare, anche per i lavoratori, solo un rischio ‘generico’ a cui è esposta la generalità dei consociati.

Con l’unica eccezione rappresentata dalle realtà in cui il pericolo di esposizione ad agenti biologici sia insito. Ovvero immanente al processo produttivo. Dunque per questo solo accentuato dal nuovo fattore patogeno (cfr. art. 266 ss. d.lgs. n. 81/2008).

Ad esempio le strutture sanitarie, socio-sanitarie, i laboratori, gli impianti di smaltimento rifiuti e di raccolta di rifiuti speciali potenzialmente infetti, ecc”.

In realtà l’infezione da coronavirus diviene, in ambiente lavorativo, un rischio tendenzialmente ‘aggravato’. Infatti nessuno nega che si tratti di un rischio ubiquitario e incombente su qualsiasi cittadino.

Tuttavia, in assenza di accorte contromisure, esso può ripercuotersi con maggiore intensità e frequenza su chiunque operi in un contesto pluripersonale organizzato. Di contro, la puntuale attuazione delle misure correttive è in grado di rendere i luoghi di lavoro persino più ‘rassicuranti’ dei contesti extra-lavorativi.

Per queste semplici ragioni, la gestione del rischio di contagio non può essere sottratta alla sfera di competenza del datore di lavoro.

Il soggetto responsabile dell’organizzazione e i rischi esogeni ed endogeni

Inoltre quando si sostiene che sul datore di lavoro non grava il dovere di valutare il rischio di contagio, si dice l’ovvio se si intende negare che egli sia tenuto a individuare le cause, le modalità e le probabilità del contagio in generale, e a fortiori che egli sia chiamato a dirimere controversie o dubbi scientifici. Tuttavia al datore di lavoro spetta la concretizzazione del risk assessment operato, in termini globali, dal legislatore e dall’autorità pubblica sanitaria e, di riflesso, la declinazione dell’annessa cornice cautelare nel singolo plesso organizzativo.

In definitiva ciò “da cui non può rifuggire il soggetto responsabile dell’organizzazione (o di una sua unità produttiva funzionalmente autonoma: art. 2, comma 1, lett. b) d.lgs. n. 81/2008) è valutare come quel rischio – scientificamente acclarato e cristallizzato nelle norme generali ed astratte – possa sprigionarsi nel contesto lavorativo sottoposto al suo potere gerarchico. Si tratta, difatti, del rischio a cui il lavoratore è soggetto alla luce delle sue peculiari mansioni, delle condizioni organizzative e produttive e della conformazione dell’ambiente occupazionale in quanto tale.

L’uso dei DPI, i lavoratori inviati all’estero e l’approccio degli enti

Una delle possibili ragioni su cui basare il dovere di risk assessment del datore di lavoro va ritrovata sulle conseguenze della normativa relativa all’emergenza che ha espressamente ricondotto nell’alveo del corpus normativo prevenzionistico ex d.lgs. n. 81/2008 una precisa misura di contenimento del contagio sui luoghi di lavoro.

Vale a dire l’utilizzo delle mascherine. Esse, a mente dell’art. 16 del D.L. n. 18/2020, conv. con mod. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, sono state assimilate a dispositivi di protezione individuale (DPI) per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività siano oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro.

L’autore accenna poi alle problematiche concernenti i lavoratori inviati all’estero, rispetto ai quali sembra avviato a consolidarsi l’assunto secondo cui il datore di lavoro sia tenuto a valutare e gestire anche rischi come quello sanitario-epidemico o quello geopolitico (guerre, secessioni, terrorismo, ecc.) del sito straniero. Si tratta di rischi ex se esogeni, ma che possono essere accresciuti proprio dall’espletamento di una precisa attività lavorativa.

Si ricordano poi le posizioni dell’European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA) che, riguardo alla questione COVID-19 nei luoghi di lavoro, “nel raccomandare ai datori di lavoro le azioni da intraprendere, colloca in primo piano proprio la necessità di aggiornare la valutazione del rischio.

I datori di lavoro, le difficoltà, l’atteggiamento prudenziale e la valutazione

A seguito della ripresa progressiva di tutte le attività produttive, consentita dal contenimento dell’epidemia e dal forte alleggerimento dell’emergenza sanitaria, è raccomandabile un atteggiamento prudenziale da parte dei datori di lavoro.

In particolare nelle strutture nelle quali il rischio di esposizione ad agenti biologici era già stato identificato e valutato, per l’inerenza specifica al processo produttivo, tra cui in primis le strutture sanitarie e tutte quelle indicate nell’allegato XLIV al d.lgs. n. 81/2008, si richiede la rielaborazione della valutazione dei rischi (in particolare biologici) e il conseguente aggiornamento del DVR. In tutte le altre strutture lavorative, occorre comunque valutare l’impatto del nuovo pericoloso agente patogeno, quale rischio nuovo, inedito.

Ciò consentirà di progettare e mettere in atto un protocollo decentrato adeguato ed efficace, giacché ritagliato sulle specifiche caratteristiche del singolo ente. L’azienda, ovviamente, non è tenuta a sopravanzare le prescrizioni anti-contagio previste dai protocolli condivisi, in quanto delimitative del rischio giuridicamente consentito”. Ed è “lecito elaborare il ‘protocollo aziendale Covid-19’ come addendum, documento allegato, appendice o integrazione al DVR. Dirimente è la sostanza, l’effettività valutazione del rischio di contagio nel singolo sito produttivo.

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