Decreto 231 e infortuni. L’impresa è responsabile.
Imprese responsabili in materia di reati colposi anche per una sola violazione in base al decreto 231/01. Infatti, in materia di responsabilità amministrativa degli enti per reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica.
Come sappiamo negli anni il decreto legislativo 8 giugno 2001 n 231, in attuazione della delega di cui all’articolo 11 della Legge 29 settembre 2000 n. 300, prevede una serie di responsabilità dell’ ente.
Gli enti forniti di personalità giuridica per andare indenni da tali responsabilità devono dimostrare di aver implementato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione gestione e controllo finalizzato a prevenire tali fattispecie di reati. Questo vuol dire avere organi di vigilanza per vigilare sul funzionamento del modello e magari rintracciare l’ autore del reato.
Non dimentichiamo infatti che una responsabilità da decreto 231 può avere delle gravi ripercussioni. Quali ad esempio il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione.
La giurisprudenza in tema di decreto 231
La Cassazione, con la sentenza 29584, ha affermato che l’interesse. Inteso questo come criterio di imputazione oggettiva della responsabilità. Può esistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta ad un’iniziativa estemporanea. Ciò senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, quando altre evidenze dimostrano il collegamento tra violazione e interesse dell’ente.
La Cassazione, nell’affrontare il ricorso presentato da una società sanzionata sul piano pecuniario per violazione del decreto 231 del 2001. Osserva che la sistematicità della violazione non deve essere considerata come un elemento tipico della fattispecie di illecito ascrivibile all’ente.
“L’articolo 25 septies non richiede la natura sistematica delle violazioni della normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell’ente derivante dai reati colposi ivi contemplati”.
E’ vero che ci sono state interpretazioni della norma di segno più moderato, indirizzate a evitare l’affermazione della responsabilità dell’impresa una volta dimostrati il reato presupposto. Nonché il rapporto di immedesimazione organica di chi ha posto in essere la condotta. E a essere valorizzato è stato allora il carattere sistematico della violazione.
Tuttavia non si tratta di una lettura accettabile del decreto 231, sottolinea la sentenza. Perché se è vero che il criterio di imputazione in discussione ha lo scopo di assicurare che la società non risponda solo sulla base del semplice rapporto di immedesimazione organica.
Garantendo che la persona fisica abbia agito nell’interesse dell’ente e non solo approfittando della posizione in esso ricoperta. Ciò “è eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte. Pur sorrette dalla intenzionalità. Ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari”.
Le indicazioni
Tutto deve essere ricondotto sul piano della ricerca delle prove. Con attenzione certo a evitare il rischio di fare coincidere un modo di essere dell’impresa con l’atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica.
L’interesse dell’impresa alla commissione del reato deve essere valutato antecedentemente ai fatti. Questo può certo essere ricavato dalla dimostrata tendenza dell’ente alla trasgressione delle regole antinfortunistiche. Ad esempio con l’obiettivo di tagliare i costi di produzione e aumentare i profitti.
E allora “l’interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata. Ciò allorché altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico. Così neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità”.
Anche la prescrizione non sala dal decreto 231
Riguardo questo tema vi è stato un mix di alert e rassicurazioni dalla Cassazione. Questo è quanto emerge dalla sentenza 28210 con cui la sesta sezione penale ha fornito chiarimenti sul controverso rapporto tra responsabilità dell’ente ex decreto 231/01 e reato presupposto che alla suddetta responsabilità dà origine.
La Cassazione ha precisato come la società resti responsabile anche se il reato nei confronti della persona fisica è prescritto. Al contempo però il giudice non può aderire aprioristicamente alla contestazione mossa alla persona fisica.
Specificamente, da un lato, con questa recente sentenza la Cassazione ha evidenziato che, anche se il reato presupposto si è nel frattempo prescritto. Rimane salva la responsabilità dell’ente.
Ciò in applicazione della previsione di cui all’art. 8 del decreto 231 del 2001 secondo cui tale responsabilità sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile. Ovvero quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.
Al contempo, tuttavia, la Cassazione ha dato dimostrazione di un approccio molto garantista. Escludendo che nell’accertare la responsabilità dell’ente ci si possa automaticamente e passivamente basare sulla contestazione che era stata formulata nei confronti della persona fisica.
Il giudice deve pertanto procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse. Nonché nel cui vantaggio l’illecito fu commesso. Vaglio che però a propria volta non può prescindere da una verifica quantomeno incidentale della sussistenza del fatto di reato.
Questo ha portato nel caso in esame a un’assoluzione dell’ente. In particolare, la contestazione di corruzione cosiddetta “propria” mossa all’imputato è stata ritenuta errata dovendo i fatti essere qualificati diversamente. Tuttavia poiché la corretta contestazione all’epoca di commissione dei fatti non rilevava penalmente, ecco che anche l’ente ne è uscito salvo.
Il caso
Nel caso di specie, la Corte di appello di Lecce aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Brindisi aveva ritenuto una società. Operante nell’ambito del trattamento e smaltimento dei rifiuti, responsabile dell’illecito di cui all’art. 25, comma 2, decreto 231/2001.
In relazione al reato di corruzione ex art. 319 c.p. Commesso dal consigliere di amministrazione dello stesso ente. Nonché da un chimico componente di comitato tecnico della Provincia di Brindisi.
In particolare, quest’ultimo, secondo l’impostazione accusatoria, si sarebbe fatto conferire dal suddetto consigliere vari incarichi di natura professionale e remunerativi. In ciò garantendo, quale contropartita, che il comitato tecnico provinciale esprimesse parere favorevole sulle istanze presentate dalla predetta società alla Provincia di Brindisi.
Quanto alla condanna degli imputati persone fisiche, il reato si era invece nel frattempo prescritto. Avverso la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’ente, rilevando, per quanto più ora interessa, violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell’atto contrario ai doveri di ufficio.
Requisito essenziale per l’integrazione del reato contestato di corruzione cosiddetta “propria” di cui all’art. 319 c.p., non essendo al contrario individuabile secondo la difesa alcuna illiceità o irregolarità nel parere reso dal comitato tecnico.
Con riguardo poi alla possibilità di riqualificazione del caso in esame come corruzione cosiddetta “impropria” di cui all’art. 318 c.p. Configurabile laddove, pur senza porre in essere alcun atto contrario ai doveri di ufficio, per l’esercizio delle funzioni. Ovvero dei poteri si percepiscano indebitamente denaro o altre utilità.
Da ciò si evidenziava come mancasse la qualifica soggettiva. Essendo detta norma applicabile, secondo il disposto dell’articolo 320 c.p. Nella formulazione vigente all’epoca dei fatti. Solo ed esclusivamente al pubblico ufficiale e al pubblico impiegato.
Qualità pacificamente non rivestite dall’imputato che quale componente del comitato tecnico provinciale era inquadrabile come incaricato di pubblico servizio.
Rapporto tra reato e decreto 231
Dunque, si anticipa sin d’ora che la Suprema corte ha ritenuto di accogliere il ricorso. Ma ciò che rende la pronuncia meritevole di segnalazione sono i chiarimenti. Rigorosi e al contempo garantisti.
Colti dalla Cassazione per fornire sul dibattuto rapporto tra responsabilità dell’ente ex decreto 231/2001 e reato presupposto che alla suddetta responsabilità dà origine. Tali indicazioni risultano molto utili in un momento in cui le imprese sono a gran voce chiamate all’aggiornamento dei propri modelli organizzativi.
In primo luogo, si è precisato come in tema di responsabilità delle società. In presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b), decreto 231/2001, deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui vantaggio l’illecito fu commesso.
Il menzionato art. 8 stabilisce, infatti, che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato. Ovvero non è imputabile, o quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia. Tuttavia, ciò non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato.
Ancora in tema di responsabilità da decreto 231. La separazione delle posizioni processuali di alcuni degli imputati del reato presupposto per effetto della scelta di riti alternativi non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell’ente.
Né riduce l’ambito della cognizione giudiziale. Da ciò consegue che dall’assoluzione di uno degli imputati del reato presupposto, non per insussistenza del fatto, non discende automaticamente l’esclusione della responsabilità dell’ente.
Pur con la doverosa precisazione per cui. Anche in questo caso. Il giudice è tenuto a procedere a una verifica del reato presupposto alla stregua dell’integrale contestazione dell’illecito formulata nei confronti della società (Cassazione penale nr. 49056/2017).
La decisione della Cassazione
Tutto ciò precisato, nel caso in esame la Suprema corte ha rilevato l’insussistenza del reato presupposto. Con particolare riguardo alla nozione di atto contrario ai doveri d’uffici. Nonché alla corretta qualificazione della condotta idonea a integrare l’ipotesi delittuosa.
Specificamente, la Cassazione ha confermato il superamento, già registrato con Cass. penale 4486/2018, di quel rigido orientamento giurisprudenziale secondo cui sarebbe stato sufficiente. Ai fini della configurabilità della ipotesi di corruzione cosiddetta “propria”. Un complessivo asservimento della funzione istituzionale alle regioni private in cambio di utilità.
Ciò senza che fosse necessaria la prova della effettiva condotta illecita. Infatti, come sottolineato dai giudici di legittimità, aderendo a tale impostazione si sarebbe inopportunamente finiti per centrare il disvalore della fattispecie sul patto criminoso. Nonché per spostare l’antigiuridicità del comportamento del funzionario dai profili relativi alla condotta a quelli che riflettono maggiormente l’elemento psicologico del reato.
Dunque, escluso di seguire la più dura linea interpretativa, nella vicenda concreta non era stata accertata alcuna irregolarità nel parere tecnico del comitato provinciale in cui sedeva il “corrotto”. Né alcun vero e proprio atto contrario ai doveri d’ufficio da parte dell’incaricato di pubblico servizio.
Al più, la condotta incriminata sarebbe stata inquadrabile nella suddetta meno grave fattispecie di corruzione cosiddetta “impropria” ex art. 318 c.p. Reato che, pur essendo anch’esso ricompreso nel decreto 231.
Tuttavia nel caso di specie era stato commesso prima dell’entrata in vigore della legge 190/2012 e pertanto avrebbe potuto essere applicato solo al pubblico ufficiale. Ovvero al pubblico impiegato, qualifica soggettiva pacificamente estranea al membro del comitato tecnico. Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per insussistenza del fatto.